La mia avventura con il vino comincia il giorno in cui un amico di mio padre mi invitò a partecipare alla vendemmia, ad entrare perciò a far parte del mondo degli adulti – un significativo cambio di guardia per un fanciullo che faceva sport e beveva latte e succhi di frutta! Era l’autunno del 1974 e rimasi in campagna per due settimane, partecipando alle fasi iniziali della produzione del vino, la raccolta e la pigiatura, che è una cosa molto sensuale. Ebbi modo di osservare la pressatura e la fermentazione iniziale del mosto. L’esperienza fu talmente piacevole che vi ritornai un mese dopo, per partecipare alla filtrazione e chiarificazione – che li si faceva con l’argilla – all’imbottigliamento dell’annata precedente e allo stivaggio di ettolitri di oro rosso nella botte madre – un gigante alto tre metri e lungo sei – probabilmente più antica di Garibaldi. Fu un timido battesimo, ma da allora il mistero del vino e i suoi segreti secolari non hanno smesso di stupirmi. Il vino mi affascina – questo piccolo miracolo, per metà creazione umana per metà naturale, orgoglio della civiltà occidentale, ingrediente essenziale di ogni cena che si rispetti, amico della cucina e del buon cibo, compagno immancabile di ogni rito e celebrazione. Quel poco che so oggi l’ho imparato collezionandoli e leggendo, ma sopratutto bevendoli. Non sono uno specialista di vini. La mia infatti vuole essere una lettura pratica e descrittiva. Spero che i miei consigli possano darvi una mano ad orientarvi nell’immensa varietà di scelte che si presentano oggi di fronte al consumatore. È difficile identificare il carattere dei vini Italiani senza rapportarlo a quello delle uve provenienti da altre regioni produttrici. Pertanto, non vi parlerò di vini d’altre nazioni se non come termine di paragone. Chiariamo innanzitutto che per capire i vini non ci vogliono particolari doti. Un discreto olfatto ce lo hanno tutti, per cui non bisogna fare altro che assaggiarli, il che, state attenti, non implica necessariamente il berli. Volete raffinare il vostro palato? Imparate ad assaggiare qualunque cosa vi venga offerta. E ricordatevi: se andate ad un wine-tasting, non bevete! Assaggiate e comparate! Se vi imbattete in un vino che non vi aggrada, mettetelo da parte. Se lo fate con eleganza, la gente vi chiederà perché, ed ecco che vi ritroverete a parlare comunque di vini. Assaggiando i vini vi renderete conto delle differenze intercorrenti fra un novello ed un vino maturo, fra un vino speziato e uno tannico, fra un rosso maturo e un rosso vellutato, e non confonderete mai uno Shyraz con un Cabernet, o un vino comune con un vino nobile.
Le principali tematiche enologiche:
– Le uve e gli uvaggi (di cui vi parlo oggi fra un argomento e un altro).
– Le parti della vite: il tronco, i tralci, i viticci, i peduncoli, i grappoli, i raspi, gli acini
– La vendemmia o raccolta dell’uva, generalmente verso la fine di Settembre.
– La cultura del vino (che è al centro del mio articolo), le grandi regioni vinicole e le loro tradizioni (se volete la vera storia, basta visitare qualunque sito web sulla Toscana o sul Piemonte). Uno dei più completi è www.vinostore.it.
– Le tipologie del vino: rosso, bianco, rosé, a loro volta con connotazioni diverse: giovane o novello, secco o asciutto, semi-secco o abboccato, amabile, dolce, frizzante e spumante. La classe del vino va in categorie crescenti: da taglio, da cucina, da tavola, d’accompagnamento, da pasto, da degustazione, da dessert, da invecchiamento, etc. (potete trovarle in ogni manuale dei vini).
– L’enologia intesa come l’arte di fare il vino (storia alquanto complessa che parte dai terreni, dalla esposizione e dalla piantumazione e scelta delle vigne!)
– La struttura del vino e le sue caratteristiche: il colore e la chiarezza (che ne denunciano il tipo e l’età), il naso (the smell), il corpo (a.k.a. the texture), che puo essere fiacco, piatto, morbido, vellutato e forte; le cosiddette caratteristiche organolettiche: la botte (the oak), gli aromi (che vanno dalle frutta ai fiori e dalle erbe alle spezie) e il bouquet (dato dalle terre, dal tannino, dalle ceneri e dalle resine essenziali); la gradazione alcolica (che ne determina la bevibilità, la conservazione e la durevolezza) e, fondamentale elemento, la coda (after-taste) tecnicamente conosciuta come caratteristica retro-olfattiva o retro-sapore.
– La Denominazione d’Origine Controllata e Garanzia (D.O.C. e D.O.C.G.) che stabiliscono e garantiscono la classe, il contenuto, la provenienza e la genuinità di un vino.
– Il bere ed il rapporto del vino con il cibo, conosciuto come “pairing”.
– Il rapporto del vino con la salute (argomento particolarmente sentito in Francia e in Italia)
– La corretta scelta del bicchiere. Troppi sono i pareri e troppi i bicchieri per descriverla adeguatamente, ma ve ne darò egualmente una prima idea.
– Collezionare, conservare ed invecchiare vini. Se non è fatto come status-symbol, ma per berli, bisogna saperli scegliere attentamente e saperne interpretare l’evoluzione. Per esempio, se siete disposti ad invecchiare un Barolo o un Ornellaja per dieci anni, potete decuplicare il valore di partenza. Attenti però: il vino acquista valore fino ad un certo punto. Essendo vivo, il vino arriva ad un apice, dopo di che si degrada sino a perire (i dettagli di seguito).
Qualità e distinzione:
Sui vini sono stati versati fiumi d’inchiostro e potete credermi se vi dico che quello dei vini non é un territorio meno controverso della politica. Non solo in campo di vini e di degustatori vi sono attori consumati e produttori senza scrupoli, ma una vasta maggioranza di consumatori illetterati e mal informati. Non sorprendetevi pertanto se, come avviene nel campo dell’arte e della letteratura, molti sanno di Dante e di Botticelli, ma pochi ne sanno parlare con giudizio. Naturalmente, vi sono in giro numerosissimi vini di qualità fatti da produttori seri e scrupolosi, come pure vi sono consumatori che sono in grado di distinguere il vino dall’acqua colorata. Il problema del discernimento – sebbene si tratti di un problema squisitamente filosofico – é che dal lato dei produttori, ogni casa vinicola seria – e ve ne sono centinaia di migliaia – detiene una metodologia unica e una segreta ricetta per fare il vino, in altre parole, una pietra filosofale; il che é difficile da conciliare con l’idea che esista un comune denominatore, un punto di riferimento universale, in altre parole, il vino dei vini.
I critici vivono nell’illusione di poter giudicare i vini dalla tradizione, e cioè da passata esperienza. Ma questo li mette in grandi difficoltà di fronte ai vini Californiani o Australiani che, rispetto alla storia, sono appena nati. I consumatori seguono la stessa regola: ogni individuo ha gusti e preferenze diverse e giurerebbe che non vi è vino migliore di uno ch’egli ama alla follia. La questione di come giudicare e classificare un vino sconfina facilmente nell’eterno dualismo fra l’idea classica di un modello di riferimento (la bellezza di Venere o di Adone) e quello moderno che contempla la possibilità di molteplici punti di riferimento allo stesso tempo (vedi Umberto Eco; chiariamo, inteso come scrittore). Il post-modernismo con il suo brancolare nel buio e acchiappare farfalle per riferimenti, mi ha sempre dato un fastidio quasi fisico. Ma come fare a negare il merito di un solido perno come la teoria della relatività, o le implicazioni del principio di Heisenberg, secondo il quale facendo luce su un fatto, si influenza il fatto medesimo. La questione e’ innegabile. Così vi consiglio di adottare molti vini, a seconda dell’umore e della giornata. Qualunque diventi il vostro vino di riferimento, posso assicurarvi che la prima volta che aprirete una bottiglia di un nobile vino se ne accorgeranno tutti, persino i non intenditori. Il fatto conduce ad una deduzione logica: un buon vino non ha bisogno di spiegazioni e la qualità non ha confini di classe.
Ma non temete, ho deciso di non filosofeggiare oltre questo punto. I massimi sistemi sono un ottimo argomento di conversazione, proprio perché sono pieni di quesiti senza risposta. Il vino tuttavia rimane un’esperienza personale per una fondamentale ragione: esso coinvolge sensi come la vista, il gusto e l’olfatto – ottimo motivo per non farsi influenzare dal parere di nessuno. Quel che spero di prospettarvi è che, ricercando cose rare e squisite, è inevitabile fare salti di classe. Vi avverto pertanto che una volta provati vini raffinati, è difficile tornare indietro a vini mediocri. Potrete continuare a bere qualunque cosa, ma inevitabilmente la qualità di quel che scegliete si eleverà. Per questo, come in una biblioteca, agli occhi di un intenditore è facilissimo distinguere la cantina di un vero collezionista da quella di un qualunquista accumulatore di bottiglie, che con la quantità e varietà cerca di compensare quel che gli manca culturalmente. La categoria del vino si vede dalle case produttrici. Ho visto mini-cantine con poche diecine di bottiglie che danno punti alle centinaia di cantine delle MacMansions, di cui questa citta è piena.
Gli ingredienti del vino:
Iniziare dagli ingredienti dei vini, e cioè dalle uve madre, o uve primarie, piuttosto che dai vini di per se, ha senso perché del vino è fondamentale capirne gli ingredienti. Bisogna però tener conto che, così come per la cucina, esistono modelli italiani – che definisco minimalisti – dove gli ingredienti sono pochi ed essenziali, e modelli francesi, che sono caratterizzati da tagli, miscele ed ingredienti multipli.
Proprio l’altro ieri ho assaggiato un Pinot-Noir spettacolare, un vino che é quasi sempre un mono-uva – inutile rivelarne il nome poiché si trattava di una produzione Californiana privata. Mentre il giorno di Natale ho aperto due bottiglie di Chateau Musar ‘91, rara annata di vino Libanese prodotto, in tempi di guerra, con viti locali unite ad uve Cabernet. Un vero tesoro nascosto, incredibilmente ricco e complesso per un vino prodotto da uvaggi. Come vedete è bene non farsi dei pregiudizi sull’uno o l’altro, visto che ogni vino ha una personalità unica e che persino il grande Barolo è ottenuto con uvaggi.
Vi ricordo in proposito che le uve di Cabernet, Chardonnay e Merlot, che da sole costituiscono il 50% del volume della produzione italiana, e che sono l’ossatura di quasi due terzi del vino prodotto nel mondo, sono originarie della Francia. L’Italia e la Francia scambiano da secoli informazioni e metodologie produttive, senza contare che la Francia importa annualmente milioni di ettolitri di vino italiano, per elevare la gradazione alcolica delle sue uve ed irrobustirne il carattere. Per contro, senza le viti e le uve Francesi i vini italiani sarebbero rimasti limitati a piccole produzioni locali o regionali. Questo scambio avviene continuamente fin dai tempi di Giulio Cesare, per cui non stupitevi se una buona parte dei vini italiani è prodotta con tecniche d’oltralpe.
Un’ultima curiosità fitologica che val la pena citare è che nel 1865 la maggior parte delle viti europee fu perduta a causa della fillossera, una cimice gialla che si installa sulle radici e soffoca la pianta. Migliaia di viti madre si estinsero. Quelle che si salvarono sopravvissero grazie ad innesti su una madre americana, la labrusca, che nel New England era diventata immune alla fillossera. La falcidie fu tale per i vini europei che se ne parlava ancora intorno alla metà del ‘900. Questo per dirvi che non è possibile parlare dei vini Italiani limitandosi ad un discorso sulle varietà indigene.
Fra le uve di origine francese, le uve di Cabernet Rosso sono riconoscibili per il loro colore intenso e perché hanno un sentore d’erba, e quelle Cabernet-Sauvignon, che è un’uva più profumata, a tarda maturazione, sono spesso associate in molti vini dell’Italia centrale alle uve Merlot, persino al Sangiovese e al Montepulciano. Ma il Cabernet Sauvignon, insieme alle uve Syrah, che invece sono riconoscibilissime per l’intenso colore violaceo e i piccoli acini, da luogo a vini da intensa colorazione per via della loro spessa pelle ed alto contenuto tannico. State attenti a non versare del Syrah sul tappeto o sul divano! È indelebile!
Nel parlare di uve madre é necessario sfatare alcuni luoghi comuni sul vino, iniziando dall’errata convinzione che le sfaccettature del vino siano una funzione del numero delle uve utilizzate. Nulla di più errato. Per chiarirvi questo paradosso, basta comparare la cucina regionale italiana a quella francese. Nella prima, di chiaro stampo spartano, vi sono ricette regionali con pochi ingredienti ben accoppiati, per esempio, olive e capperi, burro e salvia, o ricotta e spinaci. Nella seconda, gli ingredienti principali sono spesso mascherati da salse e mantecati, anch’essi ben studiati, ma con un obiettivo diverso in mente: quello di confondere il palato. Invariabilmente, vi accorgerete anche voi che concentrandosi su poche cose si va più a fondo. Per questo sostengo che la cucina francese, per quanto sorprendente e creativa, sia una cucina istriona ed ingannatrice, mentre la cucina italiana, rimane una cucina alla mano, semplice e sincera. In una pietanza italiana é infatti facilissimo distinguerne a vista tutti gli ingredienti. Ma state certi che l’obiettivo del produttore italiano rimane invariabilmente quello di avvicinarsi all’essenza del carattere di una certa regione, anche nel caso di vini ottenuti con uvaggi – che sono conglomerati di uve di valore, come il Sangiovese, e uve da spalla, come il Merlot. Una caratteristica specifica dei vini Italiani é che sono ben distinguibili fra di loro. Il Frascati, il Chianti, il Lambrusco, il Sangiovese, il Barolo, il Vermentino, l’Amarone, il Nero di Pachino, tanto per citarne alcuni, hanno una personalità talmente distinta che é impossibile non riconoscerli anche bendati.
Gli eccessi del vino:
Un altro luogo comune non italiano é quello dell’associazione del bere all’ubriachezza, un errore di chiara etichetta puritana, contrario pertanto alla cultura umanistica occidentale (che é laica) dove un gentiluomo o una signora giammai perderebbero il controllo di se stessi. Il positivismo, l’auto-determinazione e la fiducia nella ragione rimangono al centro dell’illuminismo, che cito perché ha dato vita alla cultura del vino così come la conosciamo oggi. Mi rendo conto che questa può esser vista da alcuni come un’affermazione provocatoria, specialmente in tempi di oscurantismo e proibizionismo religioso come questi. Ma, come vi ho spiegato diverse volte, non è possibile fare un discorso serio sulla cultura italiana senza sconfinare sulla filosofia e sui sistemi di valori che la sottendono. In Italia, nessuno si preoccupa di quel che può avvenire se si abusa nel consumo del vino. Solo gli stolti si ubriacano. Per cui, ai moralisti rispondo: provate a mangiarvi un chilo di ciliegie, di prugne o di cioccolata e vedete cosa vi succede. Morale della favola: il ridicolo del proibizionismo risalta immediatamente cambiando soggetto.
Assodato che il vino fa ubriacare solo chi non lo sa bere, in Italia ubriacarsi é considerato un errore, una gaffe sociale, poiché rivela mancanza di controllo, disconoscimento del galateo, persino infantilismo. Il segreto è insito nel “come” bere, nell’accorgersi di se stessi e dar tempo al corpo di assimilare il vino. Se di qualcuno si dice che “beve” ci si riferisce al consumo compulsivo di super alcolici come il gin, il rhum, la vodka o il whisky. Ubriacarsi col vino non ha alcun senso. Il vino é un piacere, non una droga. Bevuto con moderatezza, il vino é salutare, digestivo, notorio riduttivo del colesterolo, curativo delle malattie coronarie, e regolatore di diversi tipi di vizi umani, come quello di dire le bugie… o, dico io, di sostenerle. Il famoso epitaffio “in vino veritas” ha molto più a che vedere con il fatto che un buon vino fa apprezzare la semplicità, che con l’effetto dei fumi dell’alcool che, tutto sommato, rendono dubbia la confessione di un ubriaco. Mentre è certo che il vino costi molto meno di un dottore, sia più piacevole di un dottore, faccia ridere più di un dottore, e sia foriero d’ottima conversazione a tavola. Pensate solo al fatto che il vino è un ingrediente essenziale degli scambi diplomatici, dei festeggiamenti e del corteggiamento.
Le uve madre:
Ma conoscere gli ingredienti del vino non é riducibile alla banale affermazione che “il vino si fa con l’uva.” Vi sono uve e uve. E vi sono viticultori e viticultori. Fare il vino davvero comincia dalla vigna. La lavorazione e l’etica del produttore fanno il resto.
Ma è improponibile un approccio rigoroso alle uve madre in questo spazio. Tuttavia è dalla loro scelta che un vino buono diverge da un vino cattivo. Morale della favola,: nel scegliere un vino bisogna arrendersi ad un fatto: una buona metà di quel che vedete sugli scaffali dei supermercati é vino mediocre, in alcuni casi imbevibile, vuoi per scarsa qualità di partenza, per annata mediocre, dubbia provenienza, modesto fabbricante, o persino per incorretto stivaggio.
Lasciamo da parte l’acqua colorata come quella imbottigliata da produttori di grande massa come Gallo, Bolla, Folonari, Mondavi, Bella Sera, etc. che é bevuta da chi di vino non ne capisce nulla. Se tenete alla salute, evitatela, visto che per bloccare la veloce fermentazione dei dolcificanti artificiali, che ne costituiscono l’ossatura, si devono usare potenti inibitori chimici, che sono ottime sostanze per imbalsamare cadaveri ma che, ai viventi, portano emicranie della madonna. L’unico vantaggio di queste bevande é che, grazie alla pastorizzazione che rende il vino sterile, si conservano in eterno, e credo che alla morte preservino il corpo di chi le beve in eterno. Quindi, a meno che non abbiate smanie faraoniche, o che desideriate preservare la vista del vostro corpo ottantenne a future generazioni, vi garantisco che un bicchiere di vino genuino non vi darà mai un mal di testa. Eccovi un paio indizi: diffidate di bottiglie di vino con tappi sintetici o, peggio, a vite (il che implica che siano riusabili), come pure di quelle con etichette troppo artistiche e decorative. Un vino serio non ha bisogno di fronzoli e ha sempre un tappo di sughero!
Non vi tedierò con le origini storiche del vino, origini che si perdono nella mitologia della civiltà mediterranea. Vi basti sapere che era conosciuto ai tempi degli Egizi e dei Mesopotami. I Greci lo nominarono woinos, e i Latini vinum. Per la cronaca la metà delle anfore romane trovate al fondo del Mar Mediterraneo conteneva vino. In Gallia fu coniato il dittongo “gwyn”. Da li, divenne nelle terre di Languedoc “gouin” come in “le barragouineurs” che vuol dire letteralmente “coloro che bussano alla porta chiedendo di pane e vino”. I termini moderni “wine” e “vino” derivarono da quei dittonghi primari. Tutto questo avveniva diversi secoli prima della venuta di Gesù di Nazareth, che vedi caso, in una famosa cena, elevò il vino ad una icona sacrificale cristiana. Da allora maltrattare il vino o calpestare il pane è considerato un sacrilegio. Per la cronaca, bere con moderazione è un costume moderno. A parte i primi cristiani, che erano poverissimi, e che il vino se lo sognavano la notte, nelle famose feste romane chiamate Baccanalia, i nostri antenati si ubriacavano fino a perdere i sensi e la ragione. Credo che fu proprio Bacco il primo a chiedere di un’aspirina…
Il vino é oggi in gran voga ed il suo consumo continua a crescere parallelamente alla recente rinascita delle arti culinarie, specialmente negli Stati Uniti. A mio avviso, i consumatori americani si stanno accorgendo del valore di una breve pausa nel mezzo di una giornata lavoro o, alla sera, dei benefici del sedersi al tavola per il rituale della cena. É chiaro che il vino e la TV siano nemici, proprio perché il vino stimola la conversazione mentre la TV la uccide. Di fronte ad uno schermo, tanto vale bere coca cola. Proprio per questo il vino é diventato un ingrediente immancabile delle feste e degli intermezzi al teatro, degli incontri al bar con amici, dei cocktails pomeridiani, delle cene formali, ovunque la gente conversi o socializzi.
Il vino é un notorio rallentatore del tempo, per non dire che esso é il principale artefice del movimento “slow food” che si oppone al “fast food” – termine che, neanche a dirsi, in Italiano non ha sinonimi. Per la cronaca, a quasi trent’anni dall’emigrazione dalla “terra di Bacco”, continuo a non poter toccar vino a pranzo, intendo dire, senza compromettere il resto della mia giornata di lavoro. In questo senso il vino rappresenta una porta d’ingresso verso un diverso tipo di movimento – rilassato e conviviale – l’opposto di una tipica giornata di lavoro americana, che davvero non consente lunghe pause come la siesta. Ma certe volte, alla sera, cerco solo una scusa per aprire una bottiglia. La compagnia di un amico é essenziale al vino, visto che, se aprite una bottiglia decente, quel che rimane il giorno dopo somiglia più ad una brodaglia che al nettare del giorno prima. Il vino infatti si ossida rapidamente, a meno che non si tratti di un Chianti, di un Lambrusco o di un Frascati, che sono vini novelli, conviviali, pret-a-porter (pronti per l’uso), che potete anche consentirvi di rimettere in frigo per un paio di giorni; dopo aver raggiunto un picco che varia da una a tre ore, il vino si degrada rapidamente, per poi “partire”, per così dire, verso regioni imbevibili.
Non solo il vino é vivo, ma esso interagisce con l‘ambiente. Per esempio, una bottiglia di vino d’alto bordo, come un Barolo, è meglio bevuta in un ambiente freddo, proprio perché una temperatura ambientale alta fa raggiungere l’apice della curva ideale troppo in fretta. E nessuno in Italia ama arrivare ad un climax precoce – pardon! Di una bottiglia di vino serio é bene apprezzarne l’evoluzione dal primo bicchiere all’ultima goccia, bevuta a non prima di un paio d’ore di distanza dal primo sorso. Avete più di tre invitati a cena? Apritene due bottiglie, tenendo in mente che due bottiglie di vino raro sono come due gemelli, stesso ceppo, ma caratterialmente diversi l’un dall’altro.
Come vi dicevo, sul vino esiste una pletora infinita di informazioni, dai pieghevoli degli uffici turistici ai trattati enologici seri. Tuttavia, quel che leggo sul vino mi sembra mancare di praticità. Infatti, il problema di chi si trova a dover scegliere un vino é quello dell’immensa gamma di tipi di vino, di produttori, e di categorie di prezzo. Come fare a scegliere? Anche ad un piccolo supermercato, si può provare sgomento di fronte alla varietà di prodotti disponibili. Vi sono almeno una dozzina di zone produttrici di vino, ognuna con diverse diecine di regioni, centinaia di denominazioni e tipologie, dai “blends”, ottenuti coi vinaggi, alle mono-uve, e con diverse categorie di classe, dalle uve plebee come il Merlot e molti Chardonnays, alle uve serissime, come quelle di Nebbiolo, e dai vini di ogni giorno, cosiddetti da pasto come il Chianti e il Beaujolais che costano poco e rendono bene, a bottiglie di oro distillato a gocce, come il Brunello di Montalcino, il Sassicaja o l’Ornellaja, che nel 1998 Wine Spectator elesse a vino migliore del mondo. Sono di quelle bottiglie che, alla fine, le conservi per continuare ad odorarle. Per non parlare di bottiglie da lungo invecchiamento, certe volte più antiche di noi, aprendo le quali si prova una strana emozione. Una curiosità: sapevate che il termine “vintage” è un diretto derivativo del termine vendemmia?
Le caratteristiche del vino:
Come vedete, si può parlare di vini per intere settimane. Tuttavia, del vino è fondamentale conoscere le caratteristiche basilari: i sapori e gli odori degli ingredienti originari, sia al naso, al palato, che in retro-sapore, che é la parte più difficile da capire del vino. Quest’ultima caratteristica è meno conosciuta dell’odore e del sapore, e ha scarsa rilevanza per chi si contenta di gratificazioni istantanee. Ma, a mio parere, è la caratteristica più importante del vino – pensate a ciò che rimane di qualcuno che abbiamo incontrato, passata la prima impressione: talvolta nulla, talvolta poco, talvolta un sentore prolungato e un ottimo ricordo. I piani o livelli del vino sono un’altra caratteristica fondamentale. Non tutti gli odori e sapori sono rivelati al primo impatto con la bocca. Vi sono vini aciduli che rivelano un fondo o retro-sapore dolce; come pure, vini speziati o fiorati che hanno un fondo amaro o legnoso. Vi rammento che il gusto è un senso estremamente complesso e sofisticato poiché ci consente di riconoscere sia le sostanze nocive che quelle gradevoli, inoltre che uno dei ruoli del vino è quello di intervenire a “tagliare” il sapore fra un boccone e l’altro e fra una pietanza ed un’altra, in maniera da far risaltare le caratteristiche e le qualità del cibo. Come vedete, il vino ha la funzione di una pausa per pensare ed apprezzare.
In questo articolo, insieme a rinomati vini italiani, cercherò di descrivervi i componenti del vino. State attenti a non identificare le uve madre con gli omonimi vini, visto che non tutti i vini sono mono-uve, ma sono spesso ottenuti con miscele di uve diverse. A loro volta, le uve madre, ovverosia i ceppi primigeni, sono abbastanza complesse da confondere persino l’esperto. L’esempio tipico è dato dalle uve di Sauvignon e di Pinot che possono essere bianche, rosse, persino grigie… Credetemi la testa gira anche a me che colleziono vini da vent’anni. Ma scegliere un buon vino non é più facile che scegliere un buon libro o un buon ristorante. Il più delle volte ci si sbaglia, e non vi é modo di trovare quel che piace se non ci si lancia coraggiosamente. Il suggerimento di un critico o di un amico vale in questo contesto un tesoro, tenendo sempre in considerazione che il palato, inteso come gusto, é un aspetto personalissimo della degustazione. Ho visto miei amici bere vini acri, aciduli, fenolici o troppo chiusi al mio palato, ma che loro trovavano gradevolissimi. Vi sono vini che sono evidentemente “arrivati”, alcuni perché non sono cavalli di razza e andavano bevuti prima, altri perché sono stati esposti al calore o trasportati impropriamente (il vino viaggia male). Si riconoscono dal “naso” piatto, dal corpo allentato, dal colore marrone e dal sapore metallico o acetico. Sono buoni per fermentare il compost nel giardino o per sturare i lavandini. Berli per fare cortesia al padrone di casa non è una buona idea. Io preferisco lasciarli nel bicchiere.
Le uve d’oltralpe:
Consentitemi di cominciare da uve francesi, presto capirete perché. Le uve Chardonnay, sono il frutto di una vite spettacolare, esuberante, bella da vedersi, forte e resistente (alla Fillossera) possono dar vita tanto a vini decisamente generici, quanto a raffinatissimi Champagne francesi o a “metodi champenoise” come i nobili spumanti italiani Berlucchi e Ferrari. Dipende tutto dalla lavorazione, dalla raccolta e soprattutto dal clima. I climi caldi spingono il loro fondo fruttato verso una profumazione invadente, ma al nord d’Italia producono vini raffinati. Le uve Chardonnay si coltivano in Lombardia e nelle Tre Venezie, ma non vanno confuse con il Pinot Bianco, che ha un bouquet introverso, o con il Prosecco che é un uva nativa (non solo un prodotto, come molti credono) e che ha invece ha la fragranza della frutta ed un vago profumo di glicine. Per la cronaca, lo Spumante d’Asti, Piemontese d’origine, che é considerato una bevanda dolce e festiva, proviene da una varietà di uve che vanno dal Moscato Bianco alla Freisa, e dal Cortese alla Malvasia e alle uve Chardonnay, lavorate con un metodo simile al Passito, che vi illustrerò fra un attimo, oppure aggiungendo alla lavorazione uve mature e zuccherine, talvolta da tavola.
Dove comprare:
Se volete scegliere un buon vino, vi raccomando di andare in enoteca. L’enoteca di Atlanta per eccellenza si trova – non stupitevi – all’interno di Kroger at Ansley Mall. Il loro assortimento di vini non ha paragoni con nessuno in questa città sia per qualità e varietà che per prezzo. Il loro assortimento di vini ricercati italiani ha dell’incredibile. La loro camera refrigerata contiene vini rarissimi! Il tutto a prezzi imbattibili. Se decidete di andare, chiedete di Steve, Bob o Joe. Sarete ben consigliati. Una preghiera: non fate incetta di bottiglie rare! Se vi interessa una certa quantità di un vino, fate un ordinativo. Altri ottimi punti di vendita alternativi sono: Ansley Wines (Ansley Mall), Pearson’s (in Buckhead), Tower Wine and Spirits (on Piedmont Road) Green’s (on Ponce de Leon) e il nuovissimo Toscano and Sons (Marietta Street & Howell Mill Road).
Il prezzo ha molto a che vedere con la qualità di un buon vino, ma vi sono eccezioni e, credetemi, la prima volta basta spendere meno di $20 per una bottiglia di ottimo vino. Tipicamente il rivenditore se ne intende abbastanza da suggerirvi un buon vino ed indirizzarvi con certezza verso un vino con un buon rapporto qualità-prezzo. Evitate di farvi dare consigli da impiegati giovani ed entusiasti o dagli inservienti che caricano e scaricano il vino – conoscono a mala pena le etichette. Per capirne di vini ci vogliono almeno vent’anni di esperienza nel settore. Un esperto si riconosce istantaneamente dal livello di calma e sofisticatezza dei paragoni – se la poetica ne fa parte, non possono esservi dubbi. Detto ciò, se vedete un rappresentante di vini, tenetevi alla larga. Fuggite! Hanno letto quattro cose alla svelta, sono piuttosto rozzi, sebbene ingannevolmente ampollosi – credetemi tutto fumo e niente arrosto – ma soprattutto sono mercenari e vi decanteranno meraviglie sui vini che rappresentano e che spesso sono mediocri (mi perdoni Aldo Boscari, che è l’eccezione alla regola, per quel che ho appena detto!). Proprio l’altro giorno ne ho dovuto mettere a tacere un paio ad un wine-tasting, perché non riuscivo a concentrarmi sul vino. Diffidate sempre dei pitch-sales. Nella cultura secolare italiana “aggressive marketing” non ha alcun senso e la classe non si può comprare. Un buon prodotto non ha bisogno di venditori. Comunque, ricordatevi che consumare vi avvicina alla filosofia della casa produttrice, non a quella del venditore. Affidatevi ai veri conoscitori e poi al vostro naso. Persino i “sommelliers” dei ristoranti sono sospetti, perché hanno certi prodotti da spingere. Molto meglio è il consiglio di un amico. Un segreto al ristorante: prima di aver avuto assegnato un tavolo, avvicinatevi al bar e chiedete un parere al bar-tender, che da dietro il banco osserva meglio la scena e conosce i gusti del pubblico. Al bar è meno imbarazzante chiedere di assaggiare due o tre vini, prima d’ordinare un bicchiere o una bottiglia, e il bar tender non vede l’ora di elevarsi al titolo di saggio consigliere. Ma soprattutto ricordatevi, senza assaggiare non vi renderete mai conto di cosa il vostro palato ama.
Acquistare direttamente dalle case, ove consentito dalle regolamentazioni, è un’ottima idea. Ma acquistare vini “on line” da privati è un terno al lotto. Il vino non viaggia bene e se è esposto al calore, può andare a male. Inoltre il mondo è pieno di commercianti poco scrupolosi in grado di vendervi vini d’annata che hanno già passato il picco ideale e che sono sulla cosiddetta via dell’aceto. Meglio affidarsi ad un serio “retailer”, assaggiare se è il caso, e verificare il contingente in persona. Il citato www.vinostore.it è un ottimo posto per cominciare. Un altro che mi sembra serio è www.pierocostantini.it ma bisogna chiamare per ottenere spedizioni in USA.
Quale bicchiere?
La scelta del bicchiere aiuta il vino a raggiungere la condizione ideale per il suo consumo. Evitate ad ogni costo la plastica. Il vino va bevuto in bicchieri di vetro. Riguardo al tipo, la regola generale è che i bianchi non hanno bisogno di ossigenare molto, ma devono rimaner freddi. Usate un calice medio, semi-aperto, con gambo alto, per evitare interferenze olfattive e di temperatura con la mano. Per questo, evitate di toccare il calice. I rossi novelli e leggeri possono esser bevuti in un calice medio aperto. Man mano che il vino rosso cresce di classe il calice deve ingrandirsi per consentire al vino di ossigenarsi e il labbro richiudersi, per intrappolare il bouquet. Se il vino è importante, il bicchiere va riempito a metà al punto di circonferenza massima. La vera storia è molto più complessa di così, ma per cominciare può bastare. Gli spumanti e i vini bianchi delicati richiedono calici lunghi e rastremati (flute) che servono a concentrarne il sottile bouquet sul bordo. I vini liquorosi richiedono un calice da cognac con gambo corto in maniera che il palmo della mano scaldi il vino per sprigionarne gli aromi. Quando assaggiate un vino, osservatene prima il colore e la trasparenza, portateli poi al naso un paio di volte e soffermatevi senza bere, prendetene poi un sorso e tenetelo in bocca per un attimo. Quando lo mandate giu’ non prendetene un’altro sorso per cinque minuti, stando attenti ad osservarne l’evoluzione dell’aroma e del sapore. La cosa vi consentirà di apprezzarne il retro-sapore, che è forse la caratteristica più elevata del vino. Più prolungata è la coda, più evoluto e complesso è il vino. Se amate le sensazioni forti, provate un vino Californiano, e tenetevi pronti per l’assalto ai sensi, ma non deludetevi se ha un retro sapore acidulo o invadente. Certe donne amano profumarsi tanto che se per errore prendi l’ascensore con loro ne rimani imbalsamato. Io preferisco di gran lunga le donne alle quali devi avvicinarti per avvertirne il profumo.
Italia e California: due filosofie opposte
Ma la ragione per la quale molti vini bianchi Californiani si presentano con un assalto al naso, è perché le uve Chardonnay esposte al sole delle Alexander Valley e Napa Valley sviluppano una quantità di olii essenziali (chiamate resine) che diventa dominante rispetto al corpo del vino (the body); anche perché è troppo costoso separare prima della pigiatura gli acini dai raspi (che sanno d’erba e che contengono tannino), o la rimozione a mano delle vinacce (bucce e semi) come fanno in Friuli. A mio parere, le uve Chardonnay non dovrebbero mai essere coltivate a sud dell’Oregon, ne maneggiate da entusiasti senza esperienza. Ma secondo la filosofia Californiana, più resine si traduce in un vino migliore, quando invece un vino concepito per colpire è un vino spesso squilibrato, esageratamente acidulo, liquoroso e, alla fine, imbevibile. Per questo, al confronto diretto, un bianco Italiano del nord Italia può sembrare blando. Ma il segreto è nelle nuances non nei muscoli. Dipende da chi siete. Per quel che mi riguarda, quello dello Chardonnay rimane il perfetto esempio per rapportare l’entusiasmo e l’irruenza americana contro lo stoicismo del nord Italia, dove se cerchi di farti notare o di dir troppo sei visto come uno che ha poco da dire – perdonatemi patrioti! È naturale che vi sono esempi di grande equilibrio come il 1996 Caymus Sauvignon-Blanc, ma sono un ago nel pagliaio. I vini californiani in generale mi colpiscono per le loro pretese. Ma vi sono diverse eccezioni. Esistono ottimi vini come il Kendall-Jackson 2004 Grand Reserve Cabernet-Sauvignon (it retails only at $26.99) o il Primitivo di Napa che elevano il resto della produzione californiana. Ma per quel che mi riguarda, la differenza generale fra le due produzioni (Italiana ed Americana) é paragonabile alla differenza fra l’odore di una rosa e gli effluvi di un negozio di pot-pourri durante le feste di Natale. Sono nato in Italia ed è impossibile per me apprezzare l’esagerazione nella culinaria – è una lunga storia che trabocca di reazioni istintive di fronte al “troppo dolce, salato, speziato, olioso, cannellato, caffeinato” – l’elenco è lungo.
Amo l’America e so bene che la sua esuberanza deriva da un eterno stato gioviale e spensierato che fa così bene allo spirito di un europeo. La mia precedente è ovviamente un’iperbolica drammatizzazione, ma ve la propongo per introdurre il concetto della rarefazione, e cioè di quel tipo di ricerca dove, per aggiungere complessità si fa al contrario degli americani (to whom more is always better): si elimina il superfluo, si rimuovono aspetti non indispensabili di un prodotto, si fa in modo che l’uva riveli la propria natura senza esser coperta e nascosta da altri fattori. È così che, pian piano, si arriva all’essenza delle cose. Questa filosofia, di origine probabilmente Longobarda e Teutonica (a wild guess) pervade la cultura italiana, dal caffè al design e rende il prodotto italiano un prodotto unico. Per darvi un’idea delle intrinseche difficoltà di tale compito, per raffinare un vino ci vuole più tempo dell’arco di vita di un buon enologo. Nel vino c’è storia e ci sono lunghe tradizioni!
Ma anche in tema d’irruenza, è bene non illudersi, gli italiani sanno perfettamente esagerare, come per esempio, quando corteggiano una donna, quando parlano di calcio o di politica (ahimè), o quando accompagnano un loro caro in aeroporto. Il nord-Italia è decisamente più compassato del mezzogiorno e del sud, anche se Milano è piena di pavoni; ma da Roma in basso, la drammatizzazione diventa un costume. In questo senso l’esaltazione e la magnificazione non sono l’esclusiva di alcun popolo, ma sono forse influenzati dal clima. A Milano, saranno i riscaldamenti! È certo che gli americani trovano certi comportamenti italiani eccessivi. Il paradosso di questa questione è che gli Americani amano l’Italia e gli Italiani amano l’America proprio per certe loro opposte peculiarità. Il che mi offre infinite opportunità per scrivere. Ma in tema di vini, non si scappa, gli italiani sono seri e coscienziosi, e non per questo mancano di passione ed entusiasmo.
I vini regionali:
Il che mi rammenta che, fra i bianchi Italiani, il Tocai Friulano è un vino difficile da apprezzare proprio perché é delicatissimo, con quel suo fondo fumato di mandorla. Vi é poi il Sauvignon-Blanc, considerato parente del Tocai, ma originario delle regioni di Bordeaux, per cui di partenza non Mediterraneo – anch’esso un vino per intenditori che ama i climi freddi. Non posso l’elenco dei celebri bianchi senza citare l’astro nascente del Galestro Bianco, giovanissimo vino, creato nel 1974 in Toscana dai produttori del Chianti per lavorare quantità eccedenti di Trebbiano risultanti da regolamentazioni che ne riducevano al minimo la presenza nel Chianti. Fu un esperimento per salvare le uve e soddisfare le esigenze del consumatore moderno, anticonformista ma raffinato ed esigente. Il risultato fu un vino a gradazione leggera 10% – se ne può bere un’intera bottiglia a persona – dai leggerissimi toni fiorati, bassissima acidità, ed un bouquet fresco ed invitante, perfetto in una calda serata estiva per accompagnare la frutta o un piatto di pasta con frutti di mare. L’anno scorso se ne sono vendute nove milioni di bottiglie. La capsula viola che ne avvolge il tappo lo ha fatto soprannominare la violetta. A soli nove dollari a bottiglia, il Galestro e’ un campione di delicatissimi equilibri, e mi sorprende che non abbia preso piede negli Stati Uniti, forse per la sua infatuazione con vini dal grande corpo (buttery, oaky and mouth-filling). Se lo trovate, fatemelo sapere. L’anno scorso ne ho fatte fuori 12 bottiglie in una settimana.
Non potrei mai dimenticarmi del Verdicchio, che é una varietà regionale Marchigiana, che si ottiene con le uve di Verdicchio e Malvasia, un vino perfetto per accompagnare il pesce. Al nord, con la famosa Garganèga, si produce il Soave, che è un campione d’esportazione. Vi è poi il Trebbiano in due varietà, la Romagnola e la Toscana, un’uva di grande diffusione e antichissima, addirittura Etrusca, considerata una panacea contro tutti i mali. Il Trebbiano è un vitigno dai grappoli talmente ricchi ed esuberanti che non vi si può intromettere un dito per rubarne un acino. Esso viene spesso associato ad altri vini, nei cosiddetti uvaggi, per il suo alto contenuto di acidità e di zuccheri. I francesi ne fanno grande uso per “spingere” la gradazione alcolica di alcuni loro bianchi, specialmente il Sauvignon Blanc – il che consente una prolungata conservazione del vino.
Ma nessun bianco può rendere l’effetto secco e profumato delle uve isolane come il Greco, la Malvasia Eolica e di Pantelleria, il Moscato, o il raffinatissimo Vermentino di Sardegna che é un bianco finissimo che ha qualcosa di un Tocai e qualcosa di uno Champagne, ma é molto più sensuale di ambedue, con quel suo leggerissimo sottofondo di frizzante, eccezionale in una serata d’estate in romantica compagnia. Se trovate quello prodotto da “La Cala” non fatevelo sfuggire, altrimenti anche l’Argiolas va bene. Il Greco ed il suo diretto parente, il Bianco d’Alcamo sono vini a gradazione talmente alta da non poter essere bevuti da soli. Possono arrivare a sedici gradi, e anche più. Bere un bicchiere di bianco d’Alcamo puro é come bere due Vodka-Martini a digiuno. Non ci si rialza dalla sedia! Per fortuna l’Alcamo puro non è commerciabile, ma potete trovarlo nelle osterie della Sicilia occidentale. Se lo ordinate, osservate gli altri commensali fissarvi: è per vedere se vi rialzate!
Per contenuto alcolico, la Malvasia e lo Zibibbo, che sono ceppi originari dell’Asia Minore, somigliano al Trebbiano, anche se hanno un bouquet unico che sa di Mouscadine misto a miele d’api, persino un sentore di Cognac, soprattutto perché il loro prodotto più popolare, il Passito é prodotto per l’appunto con uva appassita, e cioè seccando una certa quantità d’uva al sole e reintroducendola nel mosto della seconda raccolta, mentre è in piena fermentazione. La quantità di zucchero dell’uva secca (ormai quasi passola) è talmente elevata che il mosto letteralmente bolle e si deve trasferire in vasche fredde per evitare che si auto-pastorizzi e che, per cui, diventi sterile.
Derivato dalla Malvasia, lo Zibibbo, che è anche una ottima uva da tavola, parte dai 14 gradi e arriva a 21-22 gradi nella variazione invecchiata chiamata Moscato Passito, che é una vera medicina. Quello di Pantelleria (specialmente il Bonsulton) è in grado di far fuori qualunque tipo di raffreddore e influenza in una sola notte – cosa da me provata diverse volte in gioventù. Lasciate perdere il Tanit, che è la versione commerciale fatta per i neofiti. Il Bonsulton, che è una produzione privata, si puo ottenere mettendosi in contatto con Roberto Casano. Il Passito serio è inoltre ritenuto un potente afrodisiaco, il che è vero per Roberto che lo produce e che si è passato in rivista praticamente ogni donna che ha messo piede sull’isola – bel ragazzo, se lo poteva consentire – ma credo che gli italiani prenderebbero qualunque scusa per dichiarare la loro passione in questo settore. Attenzione neofiti: reggere un bicchiere di passito non é da tutti! Una variazione meno vigorosa del Passito, ma egualmente ricca di profumi, é il Marsala che si ottiene con uve di Zibibbo, Malvasia e Moscato, invecchiando il vino e aggiungendo alla lavorazione erbe e radici toniche, come la china, la cannella e il rabarbaro, persino tuorli d’uovo. Il risultato e’ un liquore tonico, decisamente da dopo pasto.
Prima di lasciare Pantelleria, vorrei citare l’Anthilia Bianco di Donnafugata, che e’ un’altra storia di profondo amore per il vino, dimostrazione che persino uve comuni come lo Zibibbo non hanno espresso ancora tutte le loro potenzialità. Per leggerne della storia, andate a: http://www.donnafugata.it/TpagineI112.html
Mi rendo conto di aver omesso importanti vini regionali. Mi vengono in mente il meraviglioso Cortese di Gavi, il Dolcetto d’Alba, il bel Valpolicella, il Rosso di Montalcino, il Morellino si Scansano, la Vernaccia di San Gimignano, il Salice del Salentino, lo splendido Negro Amaro Pugliese, il Falerno del Massico, hai voglia di vini regionali nel seno di “Vitulia” (che è un probabile etimo del nome Italia). Ne lascio a voi la ricerca e la scoperta.
Alcuni vini Sicliani:
Fra i vini siciliani, che per ovvie ragioni conosco meglio, il Cerasuolo di Vittoria, L’Etna Rosso, il Nerello, e il Nero di Pachino (ottenuti con Nero d’Avola, Frappato, Pignatello e Nerello Mantellato), sono prodotti con uve di ceppo Syrah, solari, scure ed altamente tanniche, coltivate in terreni vulcanici. Sono vini di grande carattere, ideali per accompagnare la carne e la cacciaggione.
Il Corvo di Salaparuta, vincitore assoluto del Premio Italia nel 2005, è forse il vino siciliano piu conosciuto nel mondo. Il bianco, che è un novello, è di Grecanico e Insolia di base. Il rosso classico, vino pieno, asciutto e persistente, è prodotto con uvaggi di Nero d’Avola, Pignatello, Nerello Mascalese. Invecchia benissimo. Il Corvo Glicine è un bianco delicatissimo, prodotto con rare uve locali come il Grillo, il Sambuca e il Santa Margherita. Il loro Sciarpanera è un ottimo Syrah. Provate a visitare il sito di Corvo: è smagliante almeno quanto i loro vini. Il Regaleali, prodotto dal Conte Tasca d’Almerita (che è ancora vivo), è ottenuto con Mantonico e Trebbiano. Sia il Rosso Riserva del Conte che il Nozze d’Oro Bianco (che contiene uve di Catarratto e Insolia) sono vini da non perdere. Con il Damaschino, altra delicata uva isolana, di origine orientale, si produce il Colli d’Erice. Il Contessa Entellina Bianco, prodotto con viti di Ansonico e Catarratto, è un vino sorprendentemente delicato, direi principesco, nato per accompagnare ostriche e caviale. Purtroppo è introvabile all’estero.
I vini siciliani si trovano facilmente a New York a prezzi che vi faranno pensare di esservi sbagliati – la maggior parte è ben al di sotto dei $10. Purtroppo la licenza di vendita New York è limitata alla circoscrizione statale. Per cui non possono spedire direttamente. Come aggirare l’ostacolo? Andate in loco ed acquistatene un paio di casse. Imbottitele come se contenessero bicchieri di cristallo (double-box them with chips in between), e speditele via UPS. Non dimenticate di far scorta di Vermentino della Sardegna, di Prosecco e di spumante Ferrari che a New York costano nulla. Una piccola mancia al “ragazzo” per metterle sul carrello e seguirvi a piedi per una “delivery”, ed il gioco è fatto! L’operazione vi costerà meno che chiedere ad un commerciante della Georgia di trovarli. Per non parlare del fatto che i commercianti New Yorkesi di vino ne sanno quanto un enologo. Volete acquistare vini insieme? Fatemi un segnale, sono sempre pronto!
Altre viti Italiane:
Una vite italiana, altamente colorante e zuccherina è L’Ancellotta Romagnolo, anch’essa vite autoctona che, insieme alle uve di Lambrusco, è utilizzata per produrre il famoso Lambrusco Amabile, che é un vino popolarissimo in Emilia-Romagna, ma che ancora oggi é consumato quasi solo localmente – il che è incomprensibile, visto che é un vino rosso rubino, gioviale e trascinante, un vino che strega, specialmente se bevuto freddo in estate. Pensate alla combinazione di un rosso che sa di frutta, di uno spumante leggero e di una Sangria piena di frutta fresca, ed eccovi una ricetta ideale per ritrovarsi a “galleggiare” a due spanne da terra… Non vi dico se la pastorale scena ha luogo in estate in campagna e la figlia del fattore vi ha adocchiato!
La vite di Merlot, da sola, da vita ad un vino senza pregi e difetti, un vino decisamente per gusti semplici. Ma il Merlot non è trascurabile poiché è di gran lunga la vite più diffusa in Italia. Si distingue per l’abbondante fruttificazione e per il suo carattere mediano, ne estroverso, ne ricercato. Considerata dagli esperti un’uva centrale, “facile da manovrare”, fa spesso parte di altri vini in combinazione con le uve Cabernet. Io la considero un’uva da riempimento, una di quelle che, senza uve nobili accoppiate ad arte, non sa di niente. Personalmente, mi rifiuto di bere Merlot e Chardonnay allo stato “selvatico.“ Meglio bere acqua minerale. Ma sapete bene che, per gusti sono molto parziale. L’aver assaggiato uve nobili mi ha viziato per sempre. Non é per fare il classista, ma una volta provata una principessa é difficile accontentarsi della brava contadinotta. E non veniate a dirmi che la principessa non sa dare i piaceri della contadinotta. Se è una vera principessa, la sa lunga…
A proposito di mescolanze e sovrapposizioni, vi sono vini italiani che sono oggetto d’interessanti dispute regionali. Le popolarissime uve di Sangiovese (che sono la base del Chianti) e quelle di Montepulciano d’Abruzzo, che è un ceppo autoctono, originario di Pesaro, essendo produzioni confinanti e spesso sovrapposte, sono da secoli in competizione. Costituiscono la base di numerosissimi vini, e anche quando utilizzate come mono-uve, danno vita ad ottimi vini da tavola. Prendetene due bottiglie e mettetele al confronto. Il Sangiovese si distingue per il sottofondo dolce. Il Montepulciano appare al mio palato più riflessivo. Lascio a voi il giudizio finale!
I vini nobili:
Salendo di categoria verso i rossi vellutati, vi sono alcuni vini italiani che, di per se, richiedono un trattato a parte. Fanno parte di questa lista il Barolo, il Grignolino, l’Amarone, il Ghemme e poi i nobili Brunello, Barbaresco, Nebbiolo e Gattinara. La Toscana ha l’Ornellaja, e il Sassicaja, di cui vantarsi, prodotti con uve di Cabernet Sauvignon, Cabernet Franc e Sangiovese. Questi sono tutti vini d’alta classe, non tanto per la rarità delle uve che li costituiscono (come quelle di Nebbiolo, Croatina e Vespolina, che sono uve protette, coltivate solo in Piemonte, che fanno parte di vini pregiatissimi) quanto perché richiedono un’attenzione possibile solo alle case vinicole private o a produzioni limitate – sono tutti vini deraspati – il che si traduce regolarmente in costi elevati. Si parte da $50-$60 a bottiglia, ma le cose migliori avvengono passati i $90. Per una bottiglia di Sassicaia Vintage del 1968 si parla di $250, mentre l’Ornellaia del 2001 e 2002 si trova intorno ai $150. Questi ultimi, sono vini vellutatissimi che sanno di bacche come i mirtilli e il cassis, ma che hanno un deciso fondo di noce. Portandoli alla bocca, un buon intenditore può anche svenire.
Ma non credete per questo che il costo di un vino si traduca necessariamente in qualità. Per esempio, la qualità di un Barolo ha molto più a che vedere con aspetti caratteristici di una certa annata o produzione. Una bottiglia di Barolo di buona annata oscilla fra i $35 e i $95. Ma a meno di annate particolari, é difficile notare una differenza di classe. Comunque posso assicurarvi che bere un Nebbiolo, un Ornellaja o un Sassicaja é una esperienza indimenticabile che vi ricorderete a vita.
Vi sono poi i vini introvabili. Sono produzioni limitatissime, annate rare, o case che hanno chiuso i battenti. Una di queste é il leggendario vino Faro, di Milazzo, probabilmente uno dei più antichi vini del mondo, conosciuto già durante l’età Fenicia e Micenea, fu abbandonato verso il 1980. Quel poco che si trovava negli anni ’90 andava all’asta a prezzi da Krug-Cuveé del ’54 ($500 a bottle). La storia del vino Faro sa di leggenda. Ebbene, ho buone notizie! Alcuni anni addietro, probabilmente dopo aver visto Jurassic Park, la cantina Palari ha rilevato alcuni vecchi impianti e ha innestato nuovi ceppi di Lambrusca con i virgulti delle poche vecchie viti di Nocera (mi è sembrato di sentire: tre) sopravvissute all’incuria e alle intemperie, aggiungendo agli uvaggi Nerello Cappuccio e Nerello Mascalese. Ed eccoti, una diecina di anni fa, la reintroduzione del leggendario vino Faro con 1,800 bottiglie, una goccia nell’oceano, delle quali sono riuscito a trafugarne due – che non ho ancora bevuto. Ma ho sentito dire che é un capolavoro. Il 1999, che è la più recente annata disponibile, è stata molto produttiva, consentendo al costo di scendere notevolmente. Per il momento si parla di $60 a bottiglia, ma bisogna andare a Palermo di persona alla Enoteca Miceli per trovarlo. Collezionisti, non illudetevi di poterne acquistare più di poche bottiglie! Certi vini sono dei tesori e acquistano significato come termine di paragone, non come vini d’ogni giorno. Anche il commerciante ne è geloso. Non paventate, l’impressione di un vino memorabile è indelebile! Per la cronaca, un “capolavoro” si definisce per i suoi equilibri, e per la sua profondità, non per le sue propensioni, promesse o esagerazioni.
In conclusione:
Andando verso il sud, L’Aglianico ed il Primitivo, ambedue rossi Pugliesi, producono vini da lunghissimo invecchiamento, sia per la loro gradazione alcolica sia per la loro complessità derivante in gran parte terreni aridi e tufacei. Il Primitivo, lo dice anche il nome, è un uva antica che cresceva selvaggia nelle regioni del sud. Da vita ad un vino tannico d’intensissima colorazione violacea. Ma la cosa non avviene naturalmente. Vi ricordo che la viticoltura é un rapporto intimo fra l’uomo e la vite. Credetemi, non è la stessa cosa che coltivare mele o arance. Per quanto autoctona e ben adattata, lasciata a se stessa qualunque vigna cessa di produrre in due anni. Il deterioramento di una vigna abbandonata (e ve ne sono tante) é causato in gran parte dalla mancata potatura. Senza la mano maestra del viticultore, la vite è come se non sapesse dove andare. L’ombra, gli insetti, il gelo, i viticci e le erbacce fanno il resto del danno. La morale: il rapporto con l’uomo è inscindibile: la vite è come se rispondesse alle attenzioni del viticultore. Pensate che un ettaro di vigna produttiva e D.O.C. può valere fino a trenta volte il valore del terreno agricolo. Non parliamo del Nebbiolo: sono vigne guardate a vista col fucile carico! Che non vi venga in mente di avvicinarvi!
Il che mi ricorda del Pinot Grigio, splendida uva dai riflessi metallici. Il Pinot Grigio è una vite che ha un temperamento decisamente femminile: innanzitutto si imbelletta, ed ha bisogno di continue attenzioni. Per esempio, va diradata ad arte, come le rose, appena prima della fioritura, altrimenti da risultati mediocri. Deve essere sfrondata di frequente (lascio a voi la metafora). Poi, durante la raccolta, va trattata come una principessa e deve essere lavorata a mano perché altrimenti diventa amara ed erbacea. Per rendere le cose più difficili, al contrario di tutte le altre uve il cui raccolto ha luogo immancabilmente ad una prestabilita luna nuova, l’uva di Pinot Grigio in un certo senso decide lei quando é pronta. Vi dico, una vera donna! Ricordatevene quando ne bevete un bicchiere. Per vostra informazione, una bottiglia di Pinot Grigio per meno di $14 non e’ credibile. Si tratta di una donnaccia!
Un vino da conclusione:
Il Barbera, vino del Monferrato considerato un vino deciso e maschile, tuttavia complesso come la Quinta di Beethoven, con movimenti risoluti e angoli bucolici. Io ne vado matto! Diffuso come uva in Piemonte, Lombardia e in Emilia, é secondo solo al Sangiovese per quantità di produzione. Attenzione lettori, ad una media di $28-$30 a bottiglia il Barbera é forse il vino che fra tutti i vini italiani vi raccomando per iniziare ad allenare il vostro palato a vini di categoria medio-alta, senza sacrificare il portafoglio. Ve ne sono due ceppi, il Barbera D’alba, che è un mono-uva al 100%, e il Barbera Superiore del Monferrato, che contiene piccole quantità di uve Freisa, Grignolino e Dolcetto. La categoria di classe che segue é quella del Barolo, del Nebbiolo e del Barbaresco, ma quelli sono vini che richiedono una dissertazione e un buon conto in banca. I mostri sacri sono sempre difficili da classificare, proprio perché sono rari, antichi e sofisticati. Ma il Barbera è uno di quei vini in grado di incapsulare in una sola bottiglia l’essenza della cultura italiana.
Chiudo cosi senza ulteriori raccomandazioni nella speranza di avervi incuriosito, e stimolato ad acquistare il vino e ad apprezzare la sua saggia ed antica tradizione.
Please, drink responsibly.
Arrivederci a tavola!
Vostro, A.G.P.
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