LA LINGUA ITALIANA: EVOLUZIONE O CONTAMINAZIONE?

Cari amici italiani e italianisti, raffinati lettori di Ciancia,

È da diverso tempo che non scrivo in madrelingua. Spero, pertanto, che il presente articolo possa marcare un mio ritorno all’editoria.

Proprio ieri pensavo a come un famoso detto popolare “what you eat you are” – che George Harrison ribadiva su suo “Savoy Truffle” – potesse applicarsi ad analoghi antichi detti popolari: “Siamo le parole che usiamo” e “Le parole sono lo specchio dell’anima.”  Anche se non vi aveste notato il nesso, sono certo che abbiate osservato l’evoluzione che la lingua parlata ha subito nel tempo; che abbiate notato i grandi cambiamenti apportati alla lingua italiana dalla introduzione di neologismi e termini esterofili, soprattutto dalle abbreviazioni e le tipiche espressioni dei volanti e veloci sistemi di comunicazione odierni.  Putroppo, per far si che il lessico corrente faccia spazio ai neologismi, qualche espressione deve pur mettersi da parte.  In questo senso, almeno per quel che riguarda il lessico generazionale, siamo tutti soggetti a mode passeggere.  Consentitemi, pertanto, di partire dal mondo dell’Internet – ai suoi vantaggi e ai suoi orrori.

E’ lampante che senza Internet non si possa operare efficientemente.  Per alcuni il virtuale è la sola forma reale.  Tuttavia, non credo di essere stato il solo antico purista che inorridì la prima volta che si trovò di fronte ad espressioni ibride e cacofoniche come le storpiature Monitorare, Spoilerare, Taggare, Postare, Chattare, o (apriti cielo) Scannare – sono tutti anglicismi italianizzati, adottati acriticamente da incolti operatori che rimangono ignari del fatto che esistano gli originali – elegantissime espressioni italiane sostitutive come Verificare, Svelare, Etichettare, Affiggere, Chiacchierare e Scansionare.   Essendo io stato accademicamente formato secondo la “norma letteraria” degli anni ’50, queste storpiature moderne sono espressioni con le quali non convivo serenamente.  Tale “norma” era ben presente presso le scuole, ma soprattutto in televisione, dove vari nobili presentatori – come Elda Lanza o Enzo Tortora – parlavano un italiano esemplare e irreprensibile.  A mio modo di vedere, gli anglicismi sono forme di pigrizia linguistica.

Inoltre, dopo l’introduzione al grande pubblico delle varie forme dialettali parlate della nostra penisola, avvenuta intorno agli anni ’70, tale “norma” è stata progressivamente rimpiazzata da una crescente tolleranza verso forme parlate promiscue, non solo fortemente accentate, ma persino sgrammaticate, grazie anche alla “girata” profferta dall’abissale ignoranza di una nuova generazione di politici gretti e incolti, diciamo pure da Berlusconi in poi.  In tutto questo, tenete conto che chi vi scrive ha un culto per i dialetti italiani – ne conosco bene almeno quattro, fra i quali il Romanesco, il Napoletano, il Siciliano e il Marchigiano.  Ma queste passioni regionaliste non mi isolano dal legame più forte che avverto per la nostra bella lingua nazionale.

La comunicazione moderna – e quivi intendo riferirmi a quella che assorbiamo giornalmente in maniera acritica ­– è mediata oggigiorno dall’interfaccia dell’Internet e dei mezzi di comunicazione moderna.  Nella vita moderna siamo costantemente operativi (never offline), pertanto al centro d’incessanti flussi di informazione, esposti a una dinamica inarrestabile di testi ed immagini che arricchiscono il lessico, ma aumentano sicché le possibilità di contaminazione della lingua madre.  Mi direte: ma una lingua è sempre in evoluzione.  Sicuramente, ma il referente non si evolve attraverso un braccio di ferro – a meno che non crediate che i “moderni” possano scrivere e comporre al livello di un Dante, di un Petrarca, di un Cavalcanti o anche di un Italo Calvino.  Per chi è stato formato sui classici, la lingua va plasmata sulla musicalità del testo referente.  Ma chi legge più i classici?   In tempi imperiali si usava dire: “verba volant, scripta manent.”  Oggi invece siamo testimoni di una inversione di questo famoso concetto di Caio Tito, spettatori giornalieri di un paradigma molto più simile a “scripta volant.”   O verrete a dirmi che salvate in memoria tutti i vostri messaggini?

Di conseguenza, ne va che ciò che non rimane non ha alcuna ragione di essere ripulito e raffinato.  In italiano radiofonico si usa l’espressione “radi e getta” per tradurre il termine “disposable” (che nella lingua italiana non esiste, se non nella forma di monouso).  Monouso non rende bene per una fondamentale ragione: perché il concetto di effimero è l’estremo opposto della cultura secolare, che è immanente e che tende a permanere.  Questa leggerezza del gesto parlato non è, come si desidererebbe altrove, una forma di liberazione dal formalismo dei costumi o dalla Storia, quanto una perdita di valori centrali come la sapienza, la costanza, la sincerità, l’affidabilità, ed in generale, l’amore inteso come un sentimento forte e duraturo.  Oggi, per eliminare un amico virtuale basta pigiare un tasto.  Pertanto, dalla mia prospettiva, avverto l’avvento dell’effimero – per intenderci, dell’SMS come sostituto di un buon libro – come una perdita dell’etica e della passione per il sapere che hanno guidato il laicismo da Lorenzo dei Medici a noi.  Nuove generazioni guardano alla vita come a un fondo di bicchiere – forse dovrei dire, attraverso lo schermo di un telefonino – senza prospettiva, senza conoscerne la vastità d’orizzonti, senza più apprezzamento per quel che è stato… da dove proveniamo culturalmente.

Tornando al micro messaggio, nello scritto moderno i confini tipologici fra differenti tipi di testo si perdono: la risultante forma è fungibile, volante, duttile, leggera e veloce.  “With the attention span of modern audience nearing zero, everything is boiled down to idiosyncrasy, though more often to personal bias and prejudice.”  Sorry, this one was better told in English.  Non nego la praticità di un SMS o un Twit, ma il testo ha breve durata, poi scompare dalla memoria, e non solo quella dei nostri telefoni portatili. Non vi sono dubbi che si tratti di nuove forme linguistiche, ma a mio modesto parere queste sono mode effimere, non stratificazioni permanenti destinate a far parte del lessico classico.

Ma vediamo un po’ cosa è avvenuto.  È semplicemente avvenuto che tutto si evolve; che nulla sembra rimanere simile a se stesso, specialmente di fronte all’effetto fortemente uniformante dell’Internet e dei mezzi di comunicazione moderni.  L’evoluzione di una lingua è un dato di fatto.  Sono le contaminazioni a non essere facilmente arginabili, anche quando sono discutibili a cospetto con l’identità storica di una lingua e l’alterazione della sua naturale musicalità.  Taggare sarà pure comprensibile a chi limita le sue attività sociali al reame del virtuale, ma è onomatopeicamente orribile.

A meno di non voler considerare che esista da qualche parte una naturale resistenza linguistica di tipo nazionalista, certe espressioni, certi modi, certi termini classici, come affiggere ed etichettare (Taggare), come pure ostracizzare, boicottare, sopprimere o bandire  (al posto dell’orribile “Bannare), tendono a perdersi – questo per non parlare della pandemica perdita dell’uso del congiuntivo.

Un interessante parallelo su questo tipo di “resistenza nazionale” è tracciabile attraverso la ormai secolare questione del caffè italiano – il cosiddetto “espresso.”  L’espresso è una bevanda che resiste ancora oggi alla bastardizzazione da parte di prodotti antitetici come le imbevibili ed impronunciabili pozioni vendute da Starbucks – puro veleno adatto a chi ha un palato di “facili costumi” …diciamo pure, a chi di caffè ne capisce ben poco.  L’espresso italiano rimane fedele a se stesso, un referente, dove esperti operatori di antiche macchine da bar si sforzano di arrivare all’essenza del caffè eliminandone elementi ibridi, piuttosto che aggiungendone altri.  È un processo opposto a quello di migliorare un prodotto introducendovi spezie e sapori che non hanno nulla a che vedere con il caffè, essendo esso un prodotto altamente aromatico, quando di elevata qualità.

Tornando alla lingua, fra le storpiature moderne vi sono tendenze perimetrali, come l’odierna, forzata femminilizzazione delle denominazioni professionali.  Alcune di esse sono linguisticamente ineccepibili, come Avvocatessa; altre sono, ahimè, scivolate su definizioni mal sonanti, persino caricaturali, come Architetta (che, ironicamente, definisce un arco con le tette, non con il tetto), o della Ministra di cui sopra, definizione che a mio parere è più vicina ad una calda minestra (il che, calza bene alla Boschi).

Ma non scherziamo con le cose serie: il rispetto per la donna è un elemento sacro della nostra cultura nazionale, ma esso non andrebbe mai consumato a spese dell’estetica e dell’onomatopea.  Va bene concedere al femminismo terreno politico, ma della linguistica dovrebbero solo farne parte gli addetti.  Quest’ultima è una mia deduzione autogena, largamente dovuta all’aver testimoniato il disorientamento – non solo linguistico – causato sul rapporto uomo-donna dall’abissale disastro del femminismo e dalle sue labili e oblique teorie secondo le quali gli uomini sono degli stupratori e le donne sono delle sfruttate.  Apriti cielo!  Sono favole da menti medievali e da gente insoddisfatta che ha avuto lavato il cervello da statistiche campate in aria, da una narrativa che non si regge in piedi, per non dire dalla completa negazione della diversità emozionale, caratteriale, comportamentale e biologica fra i sessi.  Ironia della sorte, alo stesso tempo, il “le (chiedo scusa)” scompare, dando posto ad un generico “gli” che e’ sgrammaticato, quando è riferito ad una donna.  Ma questa è tutta un’altra faccenda.

Comunque, vi sono aspetti positivi di questa evoluzione, in particolare una: è evidente che vi sia un forte e rinnovato stimolo a scrivere, ad avvertire la coesione sociale via SMS, persino a costruire la propria identità sul selettivo e lucente cumulo di frammenti di una mezza vita, su una pagina di Facebook.  È chiaro che, sottoposto a cotanta sollecitazione, il lessico sia destinato ad ampliarsi.  E, noi linguisti, non abbiamo che prendere atto di questo nuovo reame semantico. Tuttavia, invito i miei lettori a non arrendersi di fronte all’assalto del pressappochismo.  Il bell’italiano è ancora vivo.  Mi picco di darvene prova qui di seguito.

Giancarlo Pirrone

Se mai vi andasse di ascoltare un’ora di ottimo italiano – una vera musica per le orecchie di chi ama la nostra bella lingua – non dovete che andare su questo sito:  Giuseppe Antonelli: La Lingua Batte

http://www.lalinguabatte.rai.it/dl/portaleRadio/media/ContentItem-bc3b5ae1-b154-4dd2-bca2-5e94622dd140.html